Non tutte le mamme son le più belle del mondo

Ha scritto Alessia Niccolucci, il

Dal blog di Johann Hari
Non tutti hanno avuto mamme belle e buone e nemmeno papà. Poichè la depressione e i comportamenti autolesionisti che si manifestano con dipendenze da droghe e alcool o con disordini alimentari e del sonno hanno lì le loro radici. E inutile negarlo: anche i disordini sessuali in tutte le loro manifestazioni nascono da un continuo bisogno di lenire antiche e insanabli ferite.
Che poi magari la mamma o il papà erano buoni ma a volte avevano scatti d’ira violenti o erano stati vittime essi stessi e soffrivano di depressioni nascoste; o erano assenti quel giorno in cui quall’altro adulto buono non era e noi eravamo troppo piccoli per difenderci, per capire, per affrontare. E in questi casi o forti si è o non lo si diventerà mai più. Ma andiamo per ordine a dare un nome alle cose e alle persone.
Vi sono madri iperprotettive a costo di distruggerti per palcare le loro paure; madri autolesioniste che si appoggiano a te schacciandoti con sensi di colpa e responsabilità non tue e che loro non sanno affrontare da sole; madri vanesie e autoreferenziali; madri egocentriche e frustrate; madri che uccidono con la lingua chiunque ti piaccia. E padri anche.

Oggi, nel mondo occidentale, se sei depresso o ansioso e ti rivolgi al medico perché non ce la fai più, probabilmente ti ritroverai ad ascoltare una storia. È successo a me quando ero adolescente, negli anni ’90. “Ti senti così”, disse il dottore, “perché il tuo cervello non funziona correttamente”. Non produce le sostanze chimiche necessarie. Devi assumere dei farmaci, ripareranno il tuo cervello danneggiato.

Ho provato questa strategia con tutte le mie forze, per oltre un decennio. Desideravo un po’ di sollievo. I farmaci mi davano una breve spinta quando aumentavo la dose ma poi, poco dopo, la sofferenza riaffiorava. Ho assunto la dose massima per più di dieci anni. Credevo che ci fosse qualcosa di sbagliato in me perché, nonostante i farmaci, sentivo ancora quel dolore immenso.

Il mio bisogno di risposte era così forte che ho investito i tre anni di formazione in scienze sociali a Cambridge per ricercare le cause scatenanti di ansia e depressione, e come sradicarle. Molte delle cose imparate mi hanno sorpreso. La prima è stata scoprire che la mia reazione ai farmaci non era inconsueta anzi, era piuttosto normale.

Spesso gli scienziati valutano la depressione servendosi della cosiddetta Scala di Hamilton. Va da 0 a 59 (quando insorgono tendenze suicide). Il miglioramento dei cicli del sonno consente uno spostamento sulla scala di Hamilton di circa 6 punti. Gli antidepressivi consentono un miglioramento di circa 1,8 punti, in media, secondo una ricerca condotta dal professor Irving Kirsch di Harvard. È un effetto concreto, ma è modesto. Ovviamente, il fatto che sia una media significa che molte persone riportano progressi maggiori. Ma per la stragrande maggioranza, me incluso, non è abbastanza per uscire dalla depressione. Per questo, ho capito che abbiamo bisogno di ampliare il menù di opzioni per chi soffre di ansia e depressione. Dovevo sapere in che modo.

Ma soprattutto, a sconvolgermi fu scoprire che secondo diversi scienziati importanti l’idea che la depressione sia causata da un cervello “chimicamente sbilanciato” è sbagliata. Ho scoperto che la depressione e l’ansia che ci circondano celano nove cause principali. Due sono di tipo biologico, e sette sono causate da fattori esterni, non sono sigillate nei nostri cervelli come mi raccontò quel dottore. Le cause sono tutte diverse e si manifestano in gradi diversi nella vita delle persone ansiose o depresse. Ma mi sorprese ancora di più scoprire che non si tratta di casi limite– da anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità mette in guardia sulla necessità di fare i conti con cause di depressione più profonde.

Qui scriverò di quella che, a mio parere, è la causa più difficile da sviscerare. Le nove cause sono tutte diverse – ma per buona parte dei miei tre anni di ricerca ho lasciato in sospeso una di loro, procrastinando, cercando di non approfondire. Alla fine, ne ho sentito parlare a San Diego, in California, quando ho conosciuto uno studioso eccezionale, il Dottor Vincent Felitti. Sarò chiaro fin dall’inizio: è stato molto doloroso esaminare questa causa. Mi ha obbligato a fare i conti con qualcosa da cui ero sempre fuggito. Mi appigliavo alla teoria secondo cui la mia depressione era solo il risultato di qualcosa che non andava nel mio cervello perché, ora lo capisco, in quel modo non avrei dovuto pensarci.

La storia delle scoperte del Dottor Felitti risale alla metà degli anni ’80, e tutto accadde quasi per caso. Sulle prime, non vi sembrerà una storia che parla di depressione. Ma vale la pena seguire il suo percorso, perché può insegnarci tanto.

Quando i pazienti entravano per la prima volta nello studio di Felitti, per alcuni era difficile anche passare dalla porta. Erano allo stadio più grave di obesità e furono assegnati a lui, alla sua clinica, per avere un’ultima possibilità. L’organizzazione sanitaria Kaiser Permanent aveva dato a Felitti il compito di scoprire come tamponare gli enormi costi dell’obesità sostenuti dall’azienda. Ricomincia da zero, dicevano. Provale tutte.

Un giorno, Felitti ebbe un’idea fin troppo ingenua. Si domandò: e se queste persone, in grave sovrappeso, smettessero semplicemente di mangiare e vivessero delle riserve di grasso accumulate nel corpo – con integratori alimentari monitorati – fino a raggiungere un peso normale? Cosa succederebbe? Con la dovuta cautela, sperimentarono questo approccio sotto un’attenta supervisione medica. E, sorprendentemente, funzionò. I pazienti perdevano peso, tornavano ad avere un corpo sano.

Ma poi accadde qualcosa di strano. Nel programma c’era chi brillava di più, quei pazienti che avevano perso un numero impressionante di chili; sia il team medico che i loro amici si aspettavano di vederli reagire con gioia, ma spesso chi aveva raggiunto i migliori risultati cadeva in una depressione feroce, provava panico o rabbia. Alcuni iniziarono a mostrare tendenze suicide. Senza la loro mole, si sentivano incredibilmente vulnerabili. Spesso si sottraevano al programma, si rimpinzavano al fast food e riprendevano peso in poco tempo.

Felitti era confuso, ma poi parlò con una donna di ventotto anni. In 51 settimane, Felitti la portò da 185 a 60 chili. Poi, all’improvviso e senza un motivo apparente, la ragazza riacquistò circa 17 chili nel giro di poche settimane. In breve tempo, superò di nuovo i 180 chili. Allora Felitti le domandò cosa fosse cambiato da quando aveva iniziato a perdere peso; era un mistero per entrambi. Parlarono a lungo. Ma una cosa c’era, confessò lei alla fine. Quando era obesa gli uomini non ci provavano mai ma, dopo aver raggiunto un peso sano un uomo le aveva fatto delle avances per la prima volta dopo tanto tempo. Lei scappò via e subito dopo riprese a mangiare in modo compulsivo, senza riuscire a fermarsi.

Fu allora che Felitti pensò di farle una domanda che non aveva mai fatto. Quando hai iniziato a ingrassare per la prima volta? La donna ci pensò su. Quando aveva undici anni, disse. Allora, il medico continuò: era successo altro nella sua vita quando aveva undici anni? Be’, rispose lei… è stato quando mio nonno iniziò a violentarmi.

Parlando con i 183 pazienti del programma, Felitti scoprì che il 55% di loro aveva subito abusi sessuali. Una donna confessò di essere ingrassata dopo lo stupro subito perché “chi è sovrappeso viene ignorato, ed era ciò di cui avevo bisogno”. Si scoprì che molte pazienti erano diventate obese per un motivo inconscio: proteggersi dalle attenzioni maschili, nella convinzione che queste potessero ferirle. D’un tratto Felitti comprese: “Quello che abbiamo concepito come problema principale – l’obesità grave – in realtà, molto spesso, è la soluzione a problemi di cui non sappiamo nulla”.

Grazie a questa intuizione, Felitti intraprese un programma di ricerca su larga scala, finanziato dai centri per il controllo e la prevenzione delle malattie. Intendeva scoprire in che modo i traumi d’infanzia ci condizionano da adulti. Somministrò un semplice questionario ai 17.000 pazienti ordinari di San Diego, ricoverati per questioni di salute generale: dall’emicrania a una gamba rotta. Il questionario domandava se, da bambino, il paziente avesse vissuto una delle dieci esperienze elencate, come essere trascurato o molestato sul piano emotivo. Poi domandava se il soggetto aveva sofferto di uno dei dieci problemi psicologici descritti, come obesità, depressione o dipendenze. Felitti voleva capire quali aspetti andavano di pari passo.

I risultati, una volta sommati, furono impressionanti. I traumi infantili portavano all’estremo il rischio di depressione in età adulta. Chi rientrava nelle sette categorie di eventi traumatici vissuti da piccolo, aveva il 3,1% di possibilità in più di tentare il suicidio da adulto, e più del 4% di diventare un consumatore di droghe iniettive.

Dopo una delle mie lunghe conversazioni sull’argomento con il Dottor Felitti, camminai tutto tremante sulla spiaggia di San Diego e vomitai nell’oceano. Mi stava costringendo a riflettere su un aspetto della mia depressione che non volevo affrontare. Da bambino, mia madre era malata e mio padre si trovava in un altro paese e, in quel caos, subii alcuni atti di estrema violenza da parte di un adulto: tra le altre cose, tentarono di strangolarmi con un cavo elettrico. Avevo cercato di sigillare quei ricordi, di seppellirli nella mia mente. Mi rifiutavo di accettare il loro manifestarsi nella mia vita adulta.

Come mai molte persone che subiscono violenze da piccole provano le stesse cose? Perché questo conduce molte di loro a comportamenti autolesionisti, come obesità, grave dipendenza o suicidio? Ci ho pensato a lungo. Ho una teoria ma vorrei sottolineare che quanto segue va oltre le prove scientifiche esaminate da Felitti e dai centri per la prevenzione, e non posso garantirne la fondatezza.

Da bambino, non puoi fare molto per cambiare l’ambiente in cui vivi. Non puoi trasferirti, o obbligare qualcuno a smetterla di ferirti. Allora, hai due scelte. Puoi ammettere con te stesso di essere impotente e che, in ogni momento, possono farti del male senza che tu possa reagire; oppure puoi convincerti che è colpa tua. Se lo fai, acquisisci un certo potere – almeno nella tua mente. Se è colpa tua, pensi, allora forse puoi fare qualcosa per cambiare la situazione. Non sei una pallina sballottolata in un flipper. Sei quello che controlla il flipper. Le tue mani stringono le pericolose leve. In tal modo, proprio come l’obesità proteggeva quelle donne da uomini potenzialmente pericolosi, incolpare te stesso per i traumi infantili vissuti ti protegge dall’ammettere la tua stessa vulnerabilità, ora come allora. Puoi diventare tu quello potente. Se la colpa è tua, allora – per qualche strano motivo – sei tu ad avere il controllo della situazione.

Ma ci sono delle conseguenze. Se sei convinto che il colpevole del male ricevuto sia tu, a un certo punto inizi a credere di meritarlo. Una persona che da piccola crede di meritare la violenza, non penserà di meritarsi molto di più neanche da adulta. Ma non si tratta di una scelta di vita. Piuttosto, è una ripetizione difettosa del meccanismo che ti ha permesso di sopravvivere da piccolo.

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Ma sono state le scoperte successive del dottor Felitti ad aiutarmi di più. Se i pazienti ordinari sottoposti al questionario rivelavano un trauma infantile, il loro medico curante avrebbe dovuto fare qualcosa di diverso alla visita successiva. Felitti convinse i medici a chiedere una cosa del genere: “Vedo che ha avuto un’esperienza terribile da piccolo. Mi dispiace tanto. Le va di parlarne?”

Felitti voleva capire se l’opportunità di parlare del trauma con una figura autoritaria di fiducia, e sentirsi dire che non era colpa loro, avrebbe aiutato i pazienti a scrollarsi di dosso la vergogna. Quello che successe fu impressionante. La semplice possibilità di parlare del trauma portò ad un calo significativo delle patologie future – nell’anno successivo il bisogno di assistenze mediche subì una riduzione del 35%. I pazienti affidati a cure più lunghe riportarono un calo di più del 50%. Una donna anziana – che aveva rivelato di essere stata stuprata da piccola – disse: “Grazie per avermelo chiesto. Credevo che sarei morta e nessuno avrebbe mai saputo quello che mi è successo”.

L’atto di dar sfogo alla propria vergogna è, già di per sé, terapeutico. Così, anche io mi rivolsi alle persone fidate e iniziai a parlare di quello che mi era successo da piccolo. Non mi addossarono quell’onta, non pensarono che fosse una conferma della mia instabilità anzi, mi dimostrarono amore e mi aiutarono a piangere per ciò che avevo sofferto.

Riascoltando le registrazioni dei miei lunghi confronti con Felitti, ho capito che se lui avesse detto ai suoi pazienti le stesse parole riservate a me (che la loro condizione dipendeva da un cervello “guasto”, e che l’unica soluzione erano i farmaci), loro non sarebbero mai stati in grado di comprendere le cause profonde del problema e non ne sarebbero mai usciti.

Studiando depressione e ansia, ho capito che le cause vanno ricercate soprattutto negli eventi della nostra vita, più che in un cervello malfunzionante. Se pensi che i tuoi sforzi siano vani e credi di non avere alcun controllo, sei più esposto al rischio di depressione. Se ti senti solo o credi di non poter contare sulle persone che ti circondano, sei più esposto al rischio di depressione. Se credi che nella vita contino soltanto gli oggetti acquistati e l’ascesa sociale, sei molto più esposto al rischio di depressione. Se credi che il tuo futuro sarà incerto, sarai più esposto al rischio di depressione. Ho scoperto tutta una serie di prove scientifiche secondo cui ansia e depressione non nascono nella nostra testa, ma dal modo in cui molti di noi sono costretti a vivere. Ci sono dei fattori biologici concreti, come i geni, che possono renderti più sensibile a queste cause, ma non sono gli elementi scatenanti principali.

E, grazie a questo, sono arrivato ad un altro riscontro scientifico: è necessario adottare un approccio diverso per risolvere depressione e ansia (oltre agli antidepressivi che, naturalmente, dovrebbero restare in gioco).

Per farlo, dobbiamo smettere di concepire depressione e ansia come patologie irrazionali o come uno strano malfunzionamento delle sostanze chimiche del cervello. Sono terribilmente dolorose, ma un senso ce l’hanno. Il tuo dolore non è uno spasmo irrazionale. È una reazione a quello che ti sta succedendo. Per affrontare la depressione, devi affrontare le sue cause soggiacenti. Nel mio lungo percorso, ho scoperto che esistono sette tipologie differenti di antidepressivi: alcuni mirano a sradicare le cause, anziché alleviare i sintomi. Liberarsi dalla vergogna è solo l’inizio.

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Un giorno, uno dei colleghi di Felitti, il dottor Robert Anda, mi disse una cosa a cui ripenso ancora.

Quando le persone adottano comportamenti apparentemente autodistruttivi, “la domanda da porre non è cosa c’è di sbagliato in loro”, disse, “ma, piuttosto, quali esperienze hanno vissuto”.

(Johann Hari -l’autore del recente Lost Connections: Uncovering the Real Causes of Depression – and the Unexpected Solution.-)

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Alessia Niccolucci Sono una scrittrice e un'insegnante
Scrivo romanzi, poesie, articoli da sempre e insegno a Roma. Ma considero la mia casa la Toscana da dove provengo. Vorrei dire di più ma è già tutto sul mio sito.
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