Il viaggio di Emma

Ha scritto Alessia Niccolucci, il

viaggio di EmmaEmma Bassetti stava seduta: sua figlia l’aveva messa di fronte alla finestra della stanza, come sempre quando le rifaceva il letto. Nella camera aleggiava il solito odore di chiuso e di medicinali, di buccia d’arancio e di colonia. Da quando Emma, dieci anni prima, aveva saputo di essersi ammalata di sclerosi multipla, la sua vita era stata un continuo calvario di ospedali, analisi, esami ed inequivocabili disillusioni, sottolineati e rimarcati dal continuo ed inesorabile peggioramento, sino all’infermità. E poi c’era l’umiliazione: lei costretta alla totale dipendenza, anche delle più intime miserie, a cui i figli, la femmina soprattutto, tentando di lenirne il pudore, provvedevano nel modo più sereno possibile. Di certo la vita della loro famiglia ne era stata stravolta: nulla era stato più lo stesso.

La figlia minore, una giovane di vent’ anni circa, umile e grassottella, ottemperava alle esigenze materne come a quelle familiari, tentando di essere le braccia di quella donna dolce, forte ed irrimediabilmente malata: sognava di fare l’infermiera, anche perché era sempre stata più abile con le mani che con i libri e priva di quella determinazione che, di solito, sostituisce la poca attitudine allo studio.
Non erano mai stati ricchi: vivevano in un appartamento di un casermone popolare, di quelli costruiti dal comune ed assegnati alle famiglie bisognose: il padre faceva il postino e prima della malattia di Emma era stata comunque, una famiglia felice. Erano state la malattia e le cure e le medicine a prostrarli, sebbene solo economicamente. Ed era sempre stata Emma l’anima allegra della famiglia, il suo nume tutelare; anche adesso continuava ad esserlo, non demordeva dalla sua fede che la sosteneva e le ripeteva quotidianamente che la vita è una ruota: e lei ci credeva e pregava e lo trasmetteva ai suoi familiari.

Dario però, il figlio maggiore, non le credeva: forse per spregio o forse perché, nonostante avesse ormai compiuto i ventinove anni, era ancora un adolescente turbolento ed un po’ smargiasso: eterno studente in Giurisprudenza, divideva il suo tempo e le sue entrate tra il praticantato nello studio legale di un suo amico e la sua passione per i muscoli, che gratificava facendo l’istruttore in una palestra ove era l’idolo delle signore più sportive. D’estate, grazie al padre, consegnava la posta sostituendo i postini in ferie, in virtù delle formule di contratto a tempo determinato tanto in voga nell’Italia degli anni Novanta.

La zona in cui vivevano era come una piccola caravella di legno popolare in bilico tra due quartieri “bene” di Roma: una formula adottata da alcune amministrazioni comunali di sinistra, col pio fine di integrare e dissimulare i desideri bizzarri della sorte. In realtà, ciò non avveniva: in realtà, ciò serviva solo a rendere più rabbioso l’umore dei meno ricchi e più alteri gli atteggiamenti dei benestanti, che si sforzavano oltre misura, di sottolineare le loro cose rispetto a quelle dei vicini di casa. In buona sostanza, le strade avevano un lato con le erbacce ed un lato con le aiuole, e niente più.

Dario perciò, non credeva in Dio, né nella chiesa, né nelle visite del parroco, amico e confidente della madre, che lui sopportava come ulteriori colpi al suo orgoglio ferito. Sin da ragazzino aveva cominciato così, a gonfiare i muscoli del suo corpo, per apparire più forte e più grande dei suoi compagni: soprattutto di Giuseppe, il suo esile e mite amico, proprietario dell’enorme studio legale ove Dario lavorava e che lo venerava come un eroe, a dispetto dei commenti sottilmente maligni della sua famiglia che era progressista ma non fessa. Ma Giuseppe, nonostante i miliardi e la compiacenza paterne, preferiva giocare con i motori e così, lavorava come apprendista nel negozio di Livio, un bonario e terragno meccanico di Vitinia, sognando di aprire un giorno, un’officina tutta sua. Ovviamente non gli mancavano di certo i mezzi: solo che il padre appunto, era progressista ma non fesso e così, evocava ogni volta qualche inestricabile impiccio legale e burocratico che ritardava l’affare della sua vita. E sperava in una redenzione impossibile. Dario era cinico: o si fingeva tale, imitando chissà quale sua idea di superuomo immaginario, mentre in realtà, era solo un buono un po’ furbetto.

Emma, seduta sulla sua sedia a rotelle, guardava dalla finestra dunque, l’aria invernale ed il cielo luminoso ma un po’ bigio del quartiere, mentre Lorena, i lunghi riccioli neri stretti in una coda, le rassettava la stanza, con gesti soliti e sicuri; in quel silenzio fatto di rumori di lenzuola e materasso battuto, improvvisamente disse alla figlia di voler andare a Lurdés il prima possibile e che voleva che lei la accompagnasse. Lorena, carattere mite e sottomesso, conosceva sufficientemente la madre per sapere che quella era una decisione irrevocabile per entrambe. E così il treno partì con le due donne pallide a bordo. Dario ed il padre le accompagnarono alla stazione e le consegnarono alle cure degli accompagnatori, entrambi con l’espressione di chi lascia soddisfare i capricci ad un bambino che non vuole più triste, sapendo che una piccola gioia non potrà mai fare più male della realtà. Le salutarono dolci alla stazione, colmandole di raccomandazioni, dopodiché girarono i piedi e si incamminarono fuori.

Il viaggio di per sé, fu un incubo: il treno era pieno di inconsolabili, totalmente soggiogati nel corpo e nella mente dalle proprie sofferenze e lì riuniti, pareva, più per la disperata ricerca di un momentaneo sollievo, di un fugace sedativo dei nervi e del loro dolore, che non dalla certezza della fede. Stregati da iperattivismo umanitario ed isterico erano invece, i volontari che li accudivano, tutti sorrisi e superefficienza, di rado animati da genuina empatia col dolore. Tale clima era per Lorena come un delirio che la strappava dalla sua serena e quieta vita quotidiana, dai suoi ambienti e volti familiari: pareva un gattino che, portato via dal suo abituale territorio, rimane atterrito e nascosto in un angolo. Il suo angolo era Emma, che serena, rimaneva assisa sulla sua sedia come su un trono, fiduciosa e sicura. Così, lungo tutto il percorso, videro scorrere dal famoso treno una serie di terre senza nome e di stazioni che segnavano le tappe del viaggio e che rievocavano episodi di storie lette sui libri o citate dai telegiornali nazionali, mentre dentro quel brulicante lombrico di metallo, chiudevano le orecchie ed il cuore per non affogare.

Lorena spingeva la carrozzina della madre in mezzo a quella strana processione di lettighe, stampelle e camici bianchi: il sentiero era avvolto in una leggera nebbiolina mattutina ed incorniciato tra alberi grandi e verdi, si scorgeva un laghetto celeste, mentre il naso le si impregnava di odori boschivi e la pelle del viso le si arrossava per le fresche punture del freddo. Sapevano di non essere le prime e che non sarebbero state le ultime a sentire tutto questo e a vedere quello che vedevano ed a pensare quello che pensavano: ma si sforzavano di non crederlo.

L’enorme stanzone freddo era grigio plumbeo: si trattava in realtà, di un grande antro percorso da diversi ambienti, tutti odoranti d’acqua. In ogni stanzone vi era una vasca, quasi un antico lavatoio, di quelli che si vedono ancora in certi paesi della provincia ed ognuna di esse era ricolma di acqua di fonte, acqua corrente e freddissima, quella stessa acqua beata che scorre dalla sorgente miracolosa di Lurdés, resa divina e prodigiosa dalla celeste apparizione della Signora. Qui, solerti infermieri, coadiuvati anche da medici, aiutano i malati ad immergersi in quell’azzurro gelato, nella speranza di una salvazione dalla terrena malattia. Gli infermi giungono qui tremanti e sovente, gementi, sia dal freddo che dall’emozione e come neonati, vengono nuovamente battezzati, provati dal bagno e poi ricondotti via.
In tale atmosfera giunse Emma, sicura, certa di ogni sua mossa in questo rituale in cui i candidi camici delle infermiere e dei dottori potevano essere scambiati per vesti sacerdotali di qualche antica cerimonia: ovunque aleggiava il rumore e lo sciacquio delle acque, delle fonti, dell’entrare e dell’uscire da esse e l’odore metallico e frizzante dell’acqua gelata. Emma indossava come gli altri un camice bianco, sotto il quale era completamente nuda: fu condotta sino al bordo della vasca e qui aiutata ad immergersi interamente. Rimase in quello stato per qualche istante, sentendo il freddo pungente intirizzirle le dita, morderle il ventre e le spalle, mentre il suo fiato si addensava sul pelo dell’acqua. La figlia, immobile a fianco della carrozzina, guardava la madre come se la vedesse per la prima volta nella sua indifesa fragilità di mortale, spogliata del ruolo materno e semplice figlia dell’uomo: e temeva per lei.

Il bar era molto affollato, come ogni domenica. Palombini era un caffè alla moda e prendere lì il thé nei pomeriggi festivi era un’impresa titanica. Ovunque intorno a noi giovani eccessivi di ogni età, fumavano e commentavano i risultati delle partite, accordandosi su dove andare a cena o a ballare. Noi quattro avevamo ottenuto un tavolo quasi per miracolo e pertanto accettammo di buon grado di condividerne le sedie con un altro gruppetto di chiassosi adolescenti lì a fianco. In quel periodo stavo con Giuseppe, l’amico sognatore per il cui padre lavorava Dario e con cui condividevo una passione smodata per i videogiochi e le immersioni. Non ho mai amato molto i luoghi affollati e non sopporto la moltitudine intono a me, ne ho quasi una fobia: ma Palombini mi piaceva, anche la domenica pomeriggio, poiché aveva dei biscottini deliziosi ed una varietà infinita di thé e tisane esotiche. Uniti al branco anche noi stavamo decidendo come concludere il week-end, mentre ci sollazzavamo con quelle profumate Lingue di Gatto.

Fu allora che Dario si offrì insolitamente, di pagarci la cena. Io e Giuseppe rimanemmo sorpresi, mentre Lidia ci spiava dietro ad uno dei suoi sorrisi dolci.
E questa fu la storia che uscì dalla bocca esitante di Dario: Emma, immersa nella fonte glaciale sino al midollo, sentì subitaneo, un terribile bruciore infiammarle la pelle e che lei attribuì dapprima, alla reazione del corpo al cambio di temperatura. Ma dopo pochi istanti, si rese conto che non era così: il calore era benefico, carezzevole e consolatore. Emma prese a piangere, così, da sola, come se qualcuno le avesse strappato via un vecchio nodo o peggio, le avesse stappato un pezzo di cuore. Non rispondeva alle domande insistenti di Lorena che, premurosa, si preoccupava delle emozioni materne: non rispondeva perché Emma non riusciva a parlare, così come non può parlare un neonato in quanto è troppo preso a gridare dalla sorpresa di essere stato strappato via da tutto quell’angusto ma consueto buio, ancora stupito e terrorizzato insieme, della propria libertà. E poi si fermò: fermò le lacrime ed il pianto e sentì che cosa doveva fare: piantò i palmi delle mani sul fondo vischioso e cercò di alzarsi in piedi, ma le sue gambe, rese deboli dalla lunga immobilità, non la sostennero ed Emma ripiombò in acqua, stavolta con tutta la testa. Gli infermieri, che non avevano capito cosa stesse accadendo, accorsero e la sollevarono di peso fuori dal suo freddo liquido amniotico, ma Emma protestava e gridava loro di lasciarla, che lei poteva fare da sola. E così, giunsero ad un compromesso, mettendola a sedere sul bordo esterno della vasca: allora Emma, reggendosi con entrambe le mani a due infermiere francesi, si sollevò e seppur stentatamente, cominciò a camminare, proprio come comincia a camminare un bimbetto incerto.

I medici non hanno saputo spiegare scientificamente l’accaduto: la malattia non era regredita, ma Emma camminava. Per sicurezza la tennero sotto osservazione alcuni giorni, pensando che forse il fenomeno fosse collegato alla reazione nervosa del corpo immerso in un’acqua tanto fredda, ma stavolta era la nuova salute a non regredire. Emma, serena come quando era partita, risalì sul treno e tornò a Roma, mentre Lorena, ancora sconvolta, ripeteva all’infinito la storia del miracolo che li aveva benedetti. Alla stazione i due uomini increduli videro con i loro occhi la donna esibirsi per loro, come farebbe un uccellino mostrando incerto ed esitante quasi, di poter volare. I medici prescrissero ad Emma della fisioterapia e ginnastica per riattivare i muscoli atrofizzati dall’infermità e le giunture intorpidite, mentre la sua storia restituiva la speranza a tutti gli altri infermi della sua parrocchia, che la festeggiava, con il parroco in testa, come una reginetta. E lei serena cammina e sorride, stupendosi di chi non riesce a crederle.
Dario era sconvolto e stupefatto: affermava il suo convinto ateismo mentre fissava la tazza di thé fumante e ne seguiva i vapori. Gli parlai di miracoli: gli dissi che forse la guarigione di sua madre poteva servire anche a mutare il suo cuore, ma per lui era più facile credere a ciò che non vedeva piuttosto che a ciò che ora vedeva. In fondo era il ragionamento opposto a quello che faceva prima del viaggio di Emma a Lurdés e con cui confermava il suo ateismo.

Non credo che Dario sia stupido: penso però, che siamo noi a scegliere le nostre catene e che siamo disposti a zittire chiunque ce ne voglia liberare.
Quella sera mangiammo pizza e bevemmo birra, brindando alla guarigione di Emma e alla faccia da manzo di suo figlio. E comunque, questa è una storia vera.

(Pubblicato nel numero di Aprile 2007 di Target).

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Alessia Niccolucci Sono una scrittrice e un'insegnante
Scrivo romanzi, poesie, articoli da sempre e insegno a Roma. Ma considero la mia casa la Toscana da dove provengo. Vorrei dire di più ma è già tutto sul mio sito.
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